Nel deserto «il Signore mi parlò attraverso una metafora», protagonista un cammello. Così fratel Arturo Paoli, alla soglia dei cent’anni, ricorda la svolta decisiva di una vita in prima linea.
di Cinzia Agostini
Accompagno fratel Arturo Paoli in una delle sue passeggiate quotidiane. Meglio: lo seguo in silenzio, come si è raccomandato io faccia. Due volte al giorno, se le condizioni atmosferiche lo permettono, fratel Arturo dedica mezz’ora di tempo a camminate di contemplativa orazione sulla collina dove sorge la sua nuova casa, in quella Lucca che gli ha dato i natali e che ora guarda a lui come a un primo cittadino. Un’attenzione che ha portato la città a inaugurare, il 3 dicembre 2011 – lui presente –, nella centralissima piazza San Martino, il Fondo documentazione Arturo Paoli, una raccolta di immagini, video, scritti sulla sua vita consacrata al prossimo.
La stessa affettuosa attenzione posta dai concittadini che transitano in automobile per la collina nei suoi (oramai conosciuti) orari all’aria aperta: a ogni curva rallentano – la sua figura potrebbe comparire sul ciglio della strada intenta a meditare – e, quando lo scorgono, accennano appena un gesto di saluto. Rispettosi del momento di preghiera, sembrano quasi volerlo proteggere.
Ma non è sempre stato così nella lunga vita di quest’uomo di fede, che il 30 novembre compirà cent’anni. Oggi Paoli parla del suo passato con la leggerezza di una persona in pace. L’allontanamento dall’Italia nel 1954, quando, sacerdote diocesano vice assistente nazionale della gioventù di Azione Cattolica, espresse alla stampa critiche alla Chiesa e la voglia di libertà dei giovani cattolici; il forzato «esilio» come cappellano sulle navi che portavano gli emigranti in Argentina; il rientro in Italia nel 1957, ordinato piccolo fratello di Charles de Foucauld, per aprire una comunità nel Sulcis, tra i minatori dell’iglesiente, con il secondo allontanamento poiché ancora sgradito alle autorità ecclesiastiche; l’arrivo in Argentina – prima tappa di un percorso lungo quarantacinque anni in America Latina tra le popolazioni più indigenti –, dove inizia il suo sodalizio con il vescovo Enrique Angelelli, la voce più profetica della Chiesa argentina negli anni della dittatura militare; la fuga obbligata da quel Paese, perché inserito dal regime nella lista delle persone da eliminare; la vicinanza alla teologia della liberazione, per elaborare la quale i fondatori utilizzarono anche il suo libro Dialogo della liberazione; gli inviti nei vari Paesi latinoamericani da parte di vescovi quali Helder Camara, Pedro Casaldaliga, Paulo Evaristo Arns; le esperienze nelle comunità del Venezuela e del Brasile; il ritorno a Lucca a 93 anni, per iniziare un’opera nuova, la casa in cui abita, aperta a credenti e a non credenti in cerca del senso del vivere… Ma tutte queste sono a suo avviso, al più, «turbolenze». E vi sorvola, consegnandole alla storia.
Le sue più pressanti urgenze ora paiono i giovani, la politica, la rinascita, perché anche questi tempi e il nostro mondo possono trovare nuove vie d’uscita, nuove risurrezioni. A lui successe: nella sua vita c’è un «punto zero» in cui l’uomo Paoli, celebre intellettuale che «aveva tutto», quel tutto perse. Accadde nel deserto algerino, durante il noviziato da piccolo fratello. Là, come racconta nel suo ultimo libro, La pazienza del nulla (edizioni Chiarelettere, 2012), ha incontrato il nulla ed è approdato all’essenziale. Ed è da qui che comincia il nostro colloquio, una volta conclusa la preghiera silenziosa e spalancatemi le porte di casa.
Msa. Perché è tornato a raccontare l’esperienza del deserto proprio in questo momento della sua vita?
Paoli. A quasi cent’anni di età, posso affermare che la mia vita è stata completamente differente da quella che avevo impostato. Direi che nessuna mia scelta, tranne quella del sacerdozio, è stata fatta a occhi aperti, di mia volontà e con assoluta spontaneità. Molte decisioni sono legate ad avvenimenti inaspettati, in cui si è manifestata una volontà che io definisco essere di Dio. Ma tale non mi è parsa all’inizio: ho letto gli eventi in questo modo solo dopo aver detto: «Sì, proviamo, seguiamo questo segno». Così nella mia esistenza il deserto è stato il vero spartiacque tra la parte attiva e la vita contemplativa. Io ci sono stato a 45 anni, nel mezzo del cammino della mia vita, visto il tempo che ho vissuto dopo… Dovetti lasciare le letture, gli studi, dimenticare il passato: l’unico libro che mi accompagnava era la Bibbia. Inizialmente accettai con grande entusiasmo, perché avevo trascorso vicende agitate e mi parve meravigliosa la prospettiva di un anno di silenzio; invece feci l’esperienza del nulla. Il deserto non è luogo di riposo: per me è stata una morte. Evidentemente Dio mi voleva a una vita contemplativa più intima attraverso l’esperienza del nulla.
Che cosa definisce con il termine «nulla»?
Venivo da una vita faticosa ma bella, circondata da persone desiderose di incontrare il senso vero dell’essere, e ne ero soddisfatto; il deserto fu un cadere nel nulla, cioè nella svalutazione totale di ciò che avevo realizzato sino ad allora. Mi resi conto che le azioni compiute erano assolutamente vane e inutili e quindi che la stessa valorizzazione della mia esistenza era falsa. Questo mi portò a una situazione di perdita della fede. Avevo vissuto quegli anni con entusiasmo e lì, improvvisamente, tutto mi apparve vanità, come se avessi solo perso tempo, creduto che fossero valori cose che proprio non lo erano. Ho desiderato la morte innumerevoli volte; non trovavo alcunché nel mio operare e nel mio passato che potesse interessarmi e dare valore alla vita. È stata un’enorme sofferenza.
Che cosa l’ha tenuta in vita?
La fedeltà, una piccola luce che ancora intravedevo e la fiducia nel maestro dei novizi, il quale mi ricordava che, per arrivare a scorgere dei valori, è necessaria la pazienza. Furono sei mesi di assoluta perdita, poi, durante il pellegrinaggio di metà noviziato, il Signore mi parlò – e chiarissimamente – attraverso una metafora. Dovevamo percorrere a piedi circa 600 chilometri per raggiungere il luogo in cui ha vissuto il nostro fondatore, Charles de Foucauld. In gruppo si partiva la mattina, senza parlare, con in tasca dei datteri, l’unico alimento della giornata; la sera si rizzava la tenda, si pregava insieme, si mangiava qualcosa e poi si dormiva. Ci accompagnava una truppa di cammelli e ogni mattina capitava che un cammello, a turno, fuggisse. Ci avevano raccomandato di non rincorrerlo, di rimanere indifferenti, di considerarlo cioè come bisognoso di un po’ di libertà. Succedeva tutti i giorni che, passato mezzogiorno, il cammello tornasse spontaneamente; allora qualcuno si avvicinava dolcemente, senza gridare, senza alzare le mani, e cominciava a camminargli a fianco cantando sommessamente. Il giorno successivo il fuggitivo era il primo a offrire il dorso per caricarvi la tenda e le vettovaglie.
Si sentì come il cammello fuggiasco?
La visione di quei cammelli cambiò la mia vita: capii nelle viscere, perché ne feci esperienza, che Dio si serve di noi, e ciò mi dette una grande pace. Cominciai a sentire che, anche quello che avevo fatto precedentemente, non l’avrei potuto fare senza il suo aiuto e la sua ispirazione; iniziai a comprendere quale importanza Dio aveva avuto nella mia vita. Nella mia sofferenza è intervenuto il Salvatore: è Lui che salva, è Lui che aiuta. Da allora, pur con quelle infedeltà che capitano, sono vissuto sempre solcando questa rotta e ora la vecchiaia mi pare bella.
Lei è stato un educatore: quale futuro si prospetta per i giovani?
Ho fatto l’educatore in vari momenti e in contesti diversi, ma un periodo buio come ora, per i giovani, non l’ho mai trovato. Manca l’affetto nei loro confronti e provo sofferenza nel constatare il momento difficilissimo che stanno attraversando. Non hanno obiettivi, certezze per il futuro, non si sentono amati e compensano questo vuoto con tanti surrogati, che poi falliscono. Nelle relazioni di coppia è diventato tutto più difficile: quanto è più facile intrecciare avventure sentimentali, tanto sono lontani il dialogo e l’intesa profonda, intima, del vero rapporto d’amore. Anche nella vita politica i giovani non vengono amati: sono pedine che disturbano il futuro, al massimo destano preoccupazione. Non si pensa a loro come orizzonte prossimo, non sono preparati a governarci: chi è arroccato al potere pensa solo al denaro e non alla costruzione del futuro.
Si sente pessimista o ottimista?
Voglio infondere speranza, vedo giovani e gruppi sensibili e profondi. Vorrei che sentissero la mia passione per loro, perché ora, con le mie forze, di più non posso fare. A loro dico: abbiamo bisogno di voi, avete in mano il futuro; la politica risorgerà, voi impegnatevi, occupatevi della vostra patria, della vostra comunità umana. Datevi un progetto e una speranza. E siate audaci, senza guardarvi indietro.
La scheda
Arturo Paoli, classe 1912, è laureato in lettere ed è stato insegnante di greco e latino. Entrato in seminario, fu ordinato sacerdote nel 1940. Dopo un periodo a Roma come vice assistente nazionale dei giovani di Azione Cattolica e un tempo come cappellano nelle navi per gli emigranti, si unì alla congregazione dei piccoli fratelli di Charles de Foucauld. Ha dedicato quasi cinquant’anni ai poveri, agli emarginati, alle vittime di ingiustizie in Argentina, Venezuela e Brasile. Nel 1999 è stato insignito del titolo di «Giusto tra le nazioni» dallo Stato di Israele per aver nascosto e salvato numerosi ebrei durante la seconda guerra mondiale; per lo stesso motivo, nel 2006 ha ricevuto la medaglia al valore civile dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
È autore di oltre 50 libri, tradotti in 4 lingue, e di migliaia di articoli; oggi scrive regolarmente per le riviste «Rocca» e «Ore undici».