Non c’è forse racconto più sconvolgente di quello biblico del cosiddetto “sacrificio di Isacco”.
In esso sembra essere in gioco un rovesciamento traumatico della paternità: la mano del padre non protegge la vita del figlio, ma si arma per dargli la morte. Il testo biblico si impernia su una richiesta paradossale e atroce che un Padre (Dio) muove ad un altro padre (Abramo): che sacrifichi, in nome della fede, il suo figlio più amato Isacco. «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su un monte che ti indicherò »
Senza addentrarmi in una lettura teologica di questa scena vorrei cogliere laicamente il suo focus nel sacrificio a cui Abramo e sua moglie Sara sono chiamati da Dio. In gioco è la rinuncia di ogni proprietà sul loro amatissimo figlio.
Ma che figlio è Isacco? Il testo biblico lo presenta come il figlio della promessa. Egli viene al mondo grazie alla parola di Dio da due genitori ormai anziani, fuori tempo biologico, incapaci di generare naturalmente. In questo senso Isacco è un puro dono di Dio. È il figlio tanto sperato quanto inatteso; è, quindi, il figlio più amato, l’unigenito immensamente desiderato. Ora, non è privo di importanza che Dio comandi che sia proprio questo figlio, il più amato, il figlio da sacrificare. Perché? Nella lettura anti-sacrificale proposta da André Wénin, Dio non esige il sacrificio umano di Isacco ma esige che i suoi genitori lo sappiano perdere; che sappiano rinunciare alla sua proprietà.
In questo senso quando Abramo risponde alla richiesta assurda del suo Dio offrendosi senza riserva (“Eccomi!”) ci rivela il senso più profondo della paternità.
“Eccomi!” significa esserci, amare il proprio figlio sino al punto di rinunciare ad ogni diritto di proprietà su di lui.
Si tratta di slegare il figlio dai lacci che lo vincolano alla sua famiglia e al desiderio dei suoi genitori. Il coltello di Abramo non colpisce, infatti, la carne del figlio, ma, guidato dalla mano dell’angelo, lo libera dai lacci, lo slega, permettendogli di divaricare la sua strada da quella dei genitori.
Abramo rinuncia al rispecchiamento narcisistico nel proprio figlio, accetta la discontinuità tra le generazioni, sa abbandonare Isacco nel deserto.
Non è forse questo il gesto che più di ogni altro riflette il dono di un padre e di una madre? Saper abbandonare, dopo averli amati e cresciuti, i loro figli nel deserto dell’esistenza?
Non a caso Sara morirà all’indomani del ritorno di Abramo.
E Isacco potrà trovare moglie in Rebecca solo una volta disceso senza la compagnia del padre dal monte Moria.
In questo senso lo stesso Kierkegaard può scrivere che «con la fede Abramo non rinunciò a Isacco ma con la fede Abramo ottenne Isacco », ovvero rese possibile ad Isacco la sua libertà, la sua vita singolare sciogliendola dai lacci che lo legavano alla famiglia d’origine.
È questo anche il dono ultimo di Sara: accogliere il proprio tramonto, la propria fine, lasciare andare il figlio.
La vita umana infatti esige la separazione e l’abbandono; esige di incontrare il mondo al di là della famiglia. La sospensione del sacrificio rivela qui tutta la sua posta in gioco: sono Abramo e Sara che devono perdere il loro amato figlio unigenito, che devono sacrificarne la proprietà per consentire al figlio di diventare un uomo.
Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore