Se ne va, il risorto, torna al Padre.
Compiendo un inaudito gesto di fede. Folle e profetico, grandioso e fecondo. Un gesto di fede nell’umanità, in noi, in me.
Affida ad uno sparuto gruppo di discepoli, fragili uomini e donne, l’incarico di proseguire l’annuncio, di costruire il Regno, finché egli venga. Uomini e donne che ancora dubitano, mentre, prostrati, lo riconoscono Messia e Signore.
Perché, come abbiamo visto con Tommaso, il dubbio è parte essenziale nella vita del credente, e il dubbioso, cioè il curioso, l’irrisolto, è stimolante spina nel fianco che impedisce alla Chiesa di diventare arrogante di Dio.
Ha fede in noi, il risorto. A noi che, invece, vorremmo fuggire, chiedere aiuto, lasciar fare a lui.
Si ribaltano le posizioni, invece.
Dio non risolve, affida.
Non interviene, chiede.
Che storia.
Noi, sgomenti come i discepoli della Scrittura. Ma come? Proprio ora che avevano capito, dopo il grande spavento della croce, si ritrovano da soli?
Proprio ora che, dopo una lunga latitanza, mi sono avvicinato alla fede e ho riscoperto il gusto della preghiera, mi spostano il prete carismatico? Il confessore? Si scioglie il gruppo?
Gesù ascende al cielo per essere il per-sempre-presente.
Come scrive Mauriac: Dal giorno dell’ascensione noi abbiamo un Dio in agguato in ogni angolo della strada.
Paradosso insostenibile del cristianesimo!
Prima ci chiede di credere che il Dio invisibile si è fatto uomo.
Ora ci chiede di credere che il Dio accessibile si consegna nelle fragili mani di uomini peccatori e incoerenti!
L’ascensione segna l’inizio del tempo della Chiesa.
Sono gli angeli a dare la chiave interpretativa dell’evento: non guardate il cielo, guardate in terra, guardate la concretezza dell’annuncio.
Diversamente da Luca, Matteo situa l’addio in Galilea, su di un monte.
E in Galilea: il luogo della frontiera, del meticciato, del confine, dei pagani, dei traditori ma, anche, il luogo dove tutto è iniziato, il luogo dell’incontro, dell’innamoramento.
Solo attingendo alle esperienze che ci hanno convertito possiamo annunciare con verità il Signore.
Ecco cosa significa non guardare il cielo: partire dalla povertà della mia parrocchia, dal senso di disagio che provo nel vivere in un paese rissoso e partigiano, dall’impressione di vivere alla fine di un Impero che crolla pesantemente sotto un cumulo di verbosità.
Qui siamo chiamati a realizzare il Regno, a rendere presente la speranza.
Qui, in questa Chiesa fragile, in un mondo fragile.
Che Dio ama.
Allora non stupisce il dubbio dei discepoli, che è il nostro.
Il risorto ci rassicura: non siamo soli, egli è con noi.
È iniziato il tempo della Chiesa, fatta di uomini e donne fragili che hanno fatto esperienza di Dio e lo raccontano nella Galilea delle genti.
Iniziamo a lavorare, finalmente?