Ho visto, ho testimoniato

Ho visto, ho testimoniato

«Io non lo conoscevo», ripete per due volte un assorto Giovanni Battista.
Lo stupore di domenica scorsa («Tu vieni da me?») gli ha spalancato un mondo, un orizzonte, una comprensione del mistero di Dio totalmente inattesa.
Credeva di sapere, credeva di credere, credeva di conoscere. Tutta la sua vita si era consumata intorno a quell’attesa, a quella preparazione, a quell’incontro.
L’ultimo dei profeti, il più grande, il più epico, il più irraggiungibile, ora è spiazzato. Perché solo i grandi uomini accettano di farsi mettere in discussione anche quando credono di sapere. E magari sanno veramente.
Eppure ammette, non gli importa di apparire stolto e di esplicitare un errore o una debolezza.

«Io non lo conoscevo».
Ammette che esiste un prima, un avanti che il Nazareno conosce e lui non ancora.
Così è la nostra vita di ricerca. Così inizia questo tempo donato da Dio. Senza sapere. Anche se già sappiamo.
Senza sederci sulle certezze acquisite, sulle cose donate e imparate, senza voler apparire arrivati o sapienti.
Dio sa stupirci, se lo lasciamo fare.

La conoscenza di Dio nasce sempre da un’esperienza.
Il vedere non è solo un distratto guardare estetico, curioso, superficiale. È l’atteggiamento di chi si pone davanti alla vita con mille domande, ma non per il piacere di ascoltare il suono della propria voce, ma nella consapevolezza che o siamo cercatori o non siamo.

«Ho visto», dice Giovanni.
Ha visto Gesù venire verso di lui, dopo il Battesimo. Ha visto un Dio che gli si fa incontro, presente, prossimo, vicino. Come abbiamo visto noi, in questi intensi giorni di Natale. Abbiamo visto un Dio che diventa bambino, che ribalta le nostre prospettive, che colma le nostre stalle, che si rivolge agli sconfitti della storia. Abbiamo visto, se non ci siamo lasciati sopraffare dall’inutile buonismo che emoziona e non converte, se non ci siamo lasciati avvelenare dalla disperazione di chi ha vissuto questo giorni da solo.
È questo il cristianesimo: lo stupore di un Dio che prende l’iniziativa, che annulla le distanze, senza porre condizioni, senza chiedere nulla in contraccambio.

Gesù è l’agnello. Non un leone, non un drago, non una vipera. Un agnello mite e senza pretese. E tutte le idee di Dio che lo mostrano come un orribile mostro sono visoni demoniache da cancellare e dimenticare. Un agnello come i tanti sacrificati duranti gli olocausti al tempio. Come i tanti agnelli ancora oggi sacrificati nei nuovi templi dell’interesse, dell’odio, della sopraffazione. Milioni di vittime innocenti. Solidale per sempre, Gesù si schiera al fianco di chi è solo.

E toglie, cancella, elimina il peccato del mondo. Non i peccati, quelli piccoli o grandi che possiamo commettere e che inevitabilmente commettiamo. Ma il peccato. Quella distanza che ci allontanava inesorabilmente da Dio. Non esiste più. Nulla ci può più separare da Dio. Perché questa distanza è stata colmata.

Così la liturgia pone questa Parola all’inizio di questo anno. Il Figlio di Dio che ci viene incontro, l’agnello che porta il peccato, su cui dimora lo Spirito siamo chiamati ancora a conoscere, ancora a vedere, ancora a testimoniare.