Giovanni ci rivela che Tommaso è soprannominato didimo, cioè gemello.
Curioso, come nomignolo. Talmente curioso da far pensare ad un simpatico espediente letterario: Tommaso ci è simile, ci è identico, noi siamo Tommaso.
Ci è uguale nella sua fede sofferta, dubbiosa, claudicante.
Come vorremmo vivere la beatitudine che pronuncia Gesù! Come vorremmo, sul serio, essere felici anche se non abbiamo visto!
Per noi, invece, la fede più che beatitudine è sofferenza, inquietudine. Crediamo, sì, certo, siamo andati e abbiamo visto. Il Vangelo si è svelato agli occhi della nostra anima come la risposta più semplice e credibile, coerente ed armoniosa alle grandi domande della vita.
Se Dio è buono, perché sperimentiamo la violenza e l’odio? Perché in questo odio è sempre il debole e l’innocente a soccombere? Se Dio è luce, perché la tenebra occupa così tanto spazio nei miei pensieri?
Crediamo, sì, ma questo dolore è sempre presente.
Tommaso ci è gemello in questa fede claudicante.
Ma anche nel sentimento di profonda delusione nei confronti di fratelli e sorelle credenti, di uomini di Chiesa.
No, non riesce a immedesimarsi nell’ottimismo dei compagni che gli raccontano di avere visto il risorto. Può darsi, è ammissibile, ma come fa a credere loro? Come può essere Pietro o Andrea a dirglielo, colmi di gioia?
Nessuno di loro era presente sotto la croce. Nessuno ha testimoniato. Nessuno è morto per lui. Sono tutti fuggiti, tutta la loro fede si è sbriciolata al primo scintillio di spada.
Una fede finta. Più ipocrita degli ipocriti farisei.
È deluso e amareggiato verso se stesso, Tommaso.
E non crede alla testimonianza di chi, proprio come lui, ha manifestato tutta la propria dirompente fragilità.
Ci è gemello, Tommaso.
Quando uomini e donne di Chiesa ci fanno soffrire, quando rinnegano le parole che professano, quando dicono e non fanno. Tommaso è il patrono delle tante persone che non riescono a vedere la presenza del risorto in questo insieme raccogliticcio che siamo.
Ma, diversamente da noi, Tommaso resta.
Non se ne va sbattendo la porta.
Non si sente migliore.
Resta, in questa Chiesa incoerente. E fa benissimo.
Perché Gesù viene apposta per lui.
Si butta in ginocchio ora e bacia quelle ferite e piange e ride.
«Mio Signore! Mio Dio!».
Pronuncia la prima professione di fede di un credente.
La più impegnativa.
Credere senza vedere non significa credere senza alcuna prova.
Ma la prova che Gesù da a Tommaso è inattesa: il dolore condiviso.
La fede sofferta che portiamo nel cuore, le domande che a volte diventando insopportabili dubbi, ma solo chi dubita crede, sono condivise dal Signore. È un sano dolore, una sana inquietudine che ci porta a scavare nella vita, a non viverla da rassegnati, a guardare oltre.
La prova più spettacolare della resurrezione di Cristo: le sue mani trafitte, come trafitti sono i nostri occhi e i nostri pensieri.
Fino a questo punto giunge la misericordia di Dio.