L’ascensione compie il mistero pasquale di Cristo e lo inizia nel mistero della Chiesa che siamo.
L’ascensione del Signore non lo separa da noi, ma lo rende presente in noi, mediante il dono dello Spirito che presiede al travaglio delle nostre anime per mettere la mondo l’uomo nuovo, primizia dell’umanità nuova: evangelizzazione è “amorizzazione”.
L’Ascensione di Gesù al cielo non è una fuga, ma un modo nuovo di essere presente. C’è una parola di Gesù che ci aiuta a capire questo mistero: «È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi lo Spirito». È bene che me ne vada, dice Gesù, per dare profondità e coerenza alla vostra fede.
Ci sono presenze, tutele, che sono rassicuranti, ma che non fanno crescere. Pensiamo a certi legami genitori-figli. Genitori che non lasciano crescere i figli, figli che hanno paura della propria autonomia, della propria responsabilità, che trovano la casa paterna più rassicurante del grande mondo. Gesù ha vissuto questa esperienza. I discepoli che gli vivevano accanto mostravano di non crescere, di affezionarsi al maestro in modo solo umano, alimentavano impazienze che generavano delusioni profonde. Comprendiamo allora che l’assenza può diventare un momento di crescita. Costringe ad abbandonare sicurezze esterne, che evitano di metterci personalmente in gioco e ci rendono capaci di scelte fatte a proprio rischio sulla misura delle situazioni reali e dei bisogni degli uomini che incontriamo. L’Ascensione dunque inaugura per il credente il tempo della responsabilità.
I discepoli «non sono del mondo», ma devono vivere «nel mondo», devono imparare a crescere con gli altri uomini, a trovare, insieme, la forza di sconfiggere il potere distruttivo della divisione, «scacciare i demoni», dice Marco. Devono aprire, nella storia, prospettive nuove, rese credibili dalla testimonianza della fraternità, «parlare lingue nuove». Devono riconciliare l’uomo con il creato, perché si realizzi la profezia di Isaia: «Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide».
C’è poi l’allusione ai veleni. Se pensiamo alla frequenza con cui oggi viene usata, nelle cronache, la parola “veleni”, quella di Gesù suona come un’anticipazione profetica. Vuol dire che il discepolo non può ritirarsi, disgustato e sconfitto, da questo clima così avvelenato, perché la sua passione per la verità e la limpidezza della sua coscienza lo rendono più forte del difficile contesto in cui vive. La vocazione del cristiano, cioè, non è quella di fuggire le situazioni difficili, ma quella di farsi carico dei veri problemi. Tra questi si inserisce l’ultimo segno citato da Marco, cioè quello di «guarire i malati». Non è l’invito a fare miracoli, ma a compiere il grande miracolo di offrire le risorse della nostra umanità nella lotta contro le malattie e le sofferenze che schiacciano gli uomini.
Chiediamo di saper vivere con lungimiranza e con coraggio il tempo della nostra responsabilità.