Rimane il punto dei Vangeli in cui tutto collassa, fino a stordire i sensi, fino allo svenimento delle carni: non ci potrà essere gioia laddove non c’è esagerazione. Come non germoglierà la gioia nella terra dove manca la libertà. Anche Dio – il Dio folle e bambino di Abramo, Isacco e Giacobbe – non si sottrae a questo esagerare per poter amare appieno. Fu confidato a Nicodemo, l’uomo che di notte s’inventò discepolo per andare ad incontrare Cristo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chi crede in lui non vada perduto».
Non bastava l’amore: serviva il tanto amore. Il di più, l’osare un passo oltre, l’ingigantire ciò che già prima c’era: la gelosia, l’afflato, la premura. Quel portare a spasso Israele giovincello su ali d’aquila, in carrozze di prima classe. Quello fu amore e diletto, passione e intrigo: questo è tanto amare. E’ il Figlio stesso, l’Unico: mandato perché il mondo si salvi. L’inaudito dei Vangeli.
Il brogliaccio della Scrittura Sacra è tutto qui: un canovaccio nel quale l’Amore sgomita con l’incredulità, Cristo con Lucifero, la bellezza con l’inganno.
Nulla di più ardito, invece: quell’amare – verbo del cuore, degli affetti e delle cose più intime – diventa dare: il verbo della manualità, delle cose da fare e disfare, verbo di manovre e di pensieri che si fanno storia e consolazione. Eccolo il Dio della Scrittura, quello che nessuno poteva immaginare così vicino e prossimo all’umano: ama al punto da dare, ama fino al punto massimo dell’amore, ama fino a perdersi tra le tenebre di una Croce e mostrare le vette vertiginose alle quali giunge chi nel cuore ama per davvero. E non per gioco.
Da qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della santificazione del nome di Dio. Ora del nome di Dio si può abusare e così insudiciare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così la sua immagine. Quanto più Egli si consegna nelle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la sua luce; quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con tutto l’infame abuso fatto del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore che ci viene incontro. Buber dice che solo con profondo rispetto potremmo raccogliere di nuovo i frammenti del nome imbrattato e cercare di purificarli. Ma da soli non ne siamo affatto capaci. Possiamo soltanto implorare Dio stesso che non lasci annientare la luce del suo nome in questo modo.
(J. Ratzinger, Gesù di Nazareth)