Una delle conquiste fondamentali portate dai moderni regimi democratici sta nel fatto che ai cittadini è assicurata la libertà di pensiero e di opinione, con la conseguenza di poter praticare la religione che si vuole. In passato tale libertà era negata, come lo è tuttora in tante parti del mondo: non di rado negata sino alla persecuzione. Di qui la lunga schiera di martiri che ha contrassegnato i secoli e, le cronache lo dimostrano, non si è ancora esaurita.
La prima persecuzione religiosa della storia pare sia stata quella subìta dagli ebrei ad opera del re di Siria Antioco IV Epìfane, il quale, quando li sottomise politicamente, cercò anche di costringerli con la forza ad abbandonare la fede dei padri (come riferiscono i due libri dei Maccabei, compresi nell’Antico Testamento). Ciò avvenne nel II° secolo avanti Cristo, ma anche al tempo di Gesù, quando la terra d’Israele era soggetta all’imperatore di Roma, i più sensibili tra gli ebrei ritenevano di essere in qualche modo violentati nella loro fede. I romani non impedivano loro di professarla, ma neppure la rispettavano come essi avrebbero voluto, ad esempio imponendo la loro moneta: gli ebrei trovavano ripugnante dover maneggiare monete con l’effigie dell’imperatore, mentre le norme religiose ebraiche esigevano di non fare immagine alcuna, né di uomini né di animali. Se si aggiunge che con quelle monete dovevano “pagare le tasse” agli odiati occupanti, la questione si presentava scabrosa.
Ne approfittarono, racconta il vangelo di oggi (Matteo 22,15-21), alcuni nemici di Gesù per tendergli un tranello: è lecito o no pagare le tasse a Cesare, cioè all’imperatore romano? La domanda era davvero ben congegnata, perché qualunque fosse stata la risposta avrebbero avuto di che accusarlo. Se avesse risposto di sì, lo avrebbero denunciato presso i connazionali quale amico dei romani e quindi traditore del suo popolo; se avesse risposto di no, lo avrebbero accusato presso le autorità romane di essere loro nemico. La risposta di Gesù fu per loro quanto meno sorprendente. Egli si fece mostrare una moneta e chiese: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” “Di Cesare”, fu l’ovvia risposta. E Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”.
Si potrebbe pensare che la risposta fosse un abile modo di trarsi d’impaccio; ma non è così. Con queste parole egli stabilì princìpi e criteri di perenne validità. Riconobbe la legittimità del potere politico, nel contempo però negando le sue eventuali pretese assolutistiche: non tutto va a Cesare, perché c’è anche “qualcosa” che spetta a Dio. Pagare le tasse non piace a nessuno, ma è giusto e dunque doveroso farlo, perché è destinato a realizzare il bene comune (se poi il governo esagera nelle richieste o usa male il ricavato, in una moderna democrazia i cittadini possono manifestare il loro scontento alle prossime elezioni); tuttavia allo Stato i cittadini potranno e dovranno dare solo, non il proprio pensiero, non la propria libertà: insomma, non sé stessi.
Ancora: Gesù parlava a uomini che conoscevano bene la Bibbia; in particolare la sua prima pagina, laddove si afferma che “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò” (Genesi 1,27): se la moneta apparteneva a colui di cui recava l’immagine, anche l’uomo appartiene a Colui di cui è l’immagine. In altre parole, l’uomo è tenuto a impegnarsi per il bene comune, deve concorrere a realizzare una società terrena giusta e solidale, ma nessuno stato, nessun governante potrà mai pretendere autorità sulla sua coscienza, sulla sua dignità, sulla sua libertà. Peraltro l’uomo ha il dovere di non consegnare mai a nessuno la propria coscienza.
mons. Roberto Brunelli