Due espressioni spiccano nella seconda lettura di oggi (1 Pietro 3,15-18). Una invita i cristiani a non lasciarsi dominare da quello che si usa chiamare “rispetto umano”, e neppure piegarsi a chi vorrebbe che la fede fosse vissuta soltanto nel segreto delle coscienze o nel chiuso delle sagrestie: «Adorate il Signore Cristo nei vostri cuori», scrive l’apostolo, invitando però subito dopo ad essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Senza imporre niente a nessuno, ma anche senza nascondere quello che crediamo e come ci proponiamo di vivere.
L’altra espressione mi richiama un particolare di due domeniche fa, quando davanti ai trecentomila giovani riuniti a San Pietro un celebre atleta, Yuri Chechi, ha detto che una sconfitta “pulita” è meglio di una vittoria con l’imbroglio. Mi sembra un’eco di quanto scrive ancora l’apostolo: «È meglio soffrire operando il bene che facendo il male». Insomma, è sempre preferibile l’onestà, anche se costa; a parte il giudizio di Dio, agire senza ricorrere a mezzucci riprovevoli o approfittare di debolezze altrui, quanto meno consente di addormentarsi in pace.
Passando al vangelo, il brano odierno (Giovanni 14,15-21) si apre con un perentorio invito di Gesù: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti». I comandamenti cui qui allude non sono tanto i dieci del ben noto elenco, conosciuti dal popolo eletto già da prima di lui; sono piuttosto quelli – che non smentiscono i dieci ma si collocano più su – dati da lui, con l’insegnamento e l’esempio; sono i comandamenti di cui lui stesso ha formulato la sintesi onnicomprensiva: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze, e amerai il prossimo tuo come te stesso».
Queste parole delineano il cuore di tutta la normativa cristiana; sono le due facce dell’unico precetto cui i cristiani sono tenuti, il precetto dell’amore, di cui i dieci comandamenti e tutte le altre regole di vita non sono se non specificazioni, applicazioni, esempi. Se amo Dio, certo non gli metto niente e nessuno davanti, non lo bestemmio, gli rendo culto almeno con la Messa festiva; se amo il prossimo, onoro il padre e la madre, non uccido nessuno, non commetto adulterio, non rubo, non danneggio altri dicendo falsità, e così via. Evitare il male è la misura minima dell’amore; il passo seguente sta nel fare il bene, tutto il bene possibile: come risposta al bene sommo che Dio per primo, mediante il suo Figlio, ha fatto e continua a fare a noi. L’amore di cui parla Gesù non sta dunque in romantiche dichiarazioni, in belle parole, ma nei fatti. Ho sentito più volte dire frasi del tipo: «A messa no, c’è troppo chiasso, le chitarre, i bambini che frignano… Preferisco andare in chiesa quando non c’è nessuno, così mi concentro meglio».
Ho visto alcuni commuoversi sino alle lacrime, guardando il film di Mel Gibson sulla Passione. C’è chi fa collezione di santini, o non è contento se non si è procurato un ramo di ulivo benedetto, o tiene nel portafogli un’immagine di Sant’Antonio o di Padre Pio: e pensa con ciò di essere un buon cristiano. Ma il cristianesimo non è una religione sentimentale, una vaga effusione di sentimenti, mutevoli e infidi come tutti i sentimenti. Si è cristiani per una scelta ragionata, per una decisione che comporta precise conseguenze; l’amore per Colui che si è scelto si sostanzia di precise concretezze: «Osservate i miei comandamenti». Lui stesso del resto l’aveva ricordato in altra occasione: «Non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che sta nei cieli». E nella preghiera da lui insegnata ha incluso: «Padre nostro… Sia fatta la tua volontà»; una domanda che non posso riferire agli altri, esentando me stesso; è una domanda implicante un proposito e un impegno, se davvero considero Dio come il Padre mio, che mi ha amato per primo.
mons. Roberto Brunelli