In questo tempo di Natale la chiesa medita e contempla in modi diversi il mistero dell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù, figlio di Maria. A Natale guardando alla sua nascita a Betlemme; nell’Ottava ricordando la circoncisione di Gesù e l’imposizione del Nome dato dall’angelo al figlio che Maria ha concepito grazie alla potenza dello Spirito santo; nella prima domenica dopo Natale celebrando la famiglia che ha accolto Gesù. Oggi, seconda domenica dopo Natale, la chiesa ci fa ascoltare una lettura altra dell’incarnazione nel vangelo “altro”, il quarto vangelo, quello secondo Giovanni.
Giovanni, un uomo che ha avuto modo di veder splendere la luce, che ha visto, udito, toccato, la luce. Anche tutta la testimonianza dell’Antico Testamento è una testimonianza di luce: da Abramo a Giovanni Battista, Dio manda testimoni della sua luce; Giovanni Battista è l’ultimo di essi: annuncia la luce che sta per venire nel mondo e riconosce in Gesù la luce attesa. Questo logos-Verbo-Parola si fa carne: uomo, caduco, limitato, finito, mettendo la sua gloria nella carne. Egli ha messo la sua tenda, skené, tra di noi, è diventato shekinah-dimora-gloria di Dio tra di noi. Il nome SHEKINAH di origine ebraica ha un significato di notevole intensità. Shekinah è la presenza di Dio nel Tempio, indica la pienezza della partecipazione della divinità alla vita dell’uomo. Per la religione ebraica questo termine traduce efficacemente e con forza la sua potenza unificante. Shekinah si lega intrinsecamente con l’azione dello Spirito Santo: è presenza che guida e muove i passi dell’uomo. Scegliere e accettare il nome shekinah è impegnativo. Ciascuno è chiamato ad essere la shekinah-dimora di Dio nella vita dell’uomo, nella storia umana. Come dice un antico testo: “noi siamo le braccia, le mani, i piedi di Dio“. Esprime una presenza che ha sapore, illumina, unisce le speranze delle persone, attorno alla Speranza: Gesù Risorto.
La gloria che abitava nella tenda dell’esodo (Es 40,34-38), che abitava nel tempio (1 Re 8,10), ora abita nella carne del Figlio di Dio. È una vera epifania. La shekinah diventa visibile, perché la shekinah è Cristo, luogo della presenza e della gloria divina. C’è chi ha visto la gloria di Dio: l’Unigenito pieno di grazia e di verità; lui viene a rivelarci il volto del Padre, l’unico che può farlo perché è nel seno del Padre. Da questa pienezza di vita ha origine la nuova creazione. Mosè ha dato la legge, Cristo dà la grazia e la verità, l’amore e la fedeltà. Nel Figlio si può contemplare Dio senza morire perché chi vede il Figlio vede il Padre: Gesù è l’esegesi, la narrazione della vita divina.
E il luogo di rivelazione è la sua carne. Ecco perché Giovanni dirà nel compimento dell’ora: «Noi abbiamo visto la sua gloria» (Gv 1, 14), dove per “ora della glorificazione” non si vedono altro che tenebre. La luce è nascosta nel suo dare la vita per amore degli uomini, nell’amore fino alla fine, senza tirarsi indietro, rispettando la libertà dell’uomo di crocifiggere l’Autore della vita. Dio è glorificato nel momento della passione: un amore compiuto, definitivo, senza limiti, un amore dimostrato fino alle estreme conseguenze. È il mistero della luce che si fa strada nelle tenebre, sì perché l’amore ama l’oscurità della notte: quando la vita si fa più intima e le proprie parole muoiono per vivere nel respiro delle parole della persona amata, la luce è nell’amore che illumina quell’ora di espropriazione, ora in cui si perde se stessi per ritrovarsi restituiti nell’abbraccio della vita.