Non è facile accogliere con umiltà la lezione che ci viene dalla storia che stiamo vivendo

Come la storia iniziata (o finita) due giovedì fa a Lampedusa, destinata a ripetersi con altri numeri e con altre facce. È la storia dei lebbrosi che pur essendo in un villaggio, stanno a distanza, come prescrive la legge (Cfr Levitico, 13) che per difendere separa. L’immagine è chiara: abitiamo lo stesso mondo ma nella separazione… La lebbra è una brutta malattia da mille risvolti: sanitari, sociali, psicologici, religiosi, politici.  Oppure sono proprio quei risvolti che producono la lebbra? È  una società, la nostra che produce lebbra dai diversi nomi: emarginazione, povertà, miseria, fame, eresia, ideologia, razza, integralismo, guerra, emigrazione… un elenco interminabile di situazioni, dinamiche, coinvolgimenti di cui interessarsi, studiare, valutare, per fare programmi, progetti, individuare soluzioni, percorsi, strategie. Poi un fatto grave come quello di Lampedusa di questo 3 ottobre, ci mette sotto il naso volti e cadaveri e tutte le strategie e progetti saltano per tornare alla verità dell’uomo nella semplice capacità relazionale. Perché la relazione, la compassione è straordinariamente efficace nell’uomo. All’interno del villaggio Gesù incontra un mondo di separati. Dieci è il numero richiesto per formare una comunità sinagogale: Sinagoga (assemblea) è il termine che definisce il luogo di culto della religione ebraica; la parola stessa è la traduzione del termine ebraico (Beit Knesset, appunto casa di riunione). Quel numero 10 ci racconta di una comunità religiosa che vive in un villaggio, ma che ne è separata come una chiesa immersa nel mondo da cui però ha preso le distanze, non ne vive la storia e l’esperienza, una chiesa malata. Eppure conosce Gesù, lo chiama per nome, lo chiama maestro e grida pietà!… è una preghiera fatta ad alta voce e di sole parole, che chiede pietà e non guarigione, non cerca comunione, osservante delle regole mantiene la distanza anche da Gesù. Luca ci dice che Gesù appena li vide li invia a Gerusalemme dai sacerdoti. Non ha parole di ascolto o compassione ma ordina loro un gesto vietato, una forzatura della legge: presentarsi ai sacerdoti del tempio ancora carichi di impurità. Non possiamo aspettare di essere belli, puliti, sanati, puri per metterci in cammino. Anche Gesù sta andando a Gerusalemme sempre più carico delle infermità umane. La salvezza è per gli ammalati e i peccatori.

Per strada quei dieci furono sanati…  La guarigione arriva, non perché è stato chiesto pietà, piuttosto perché si sono messi in cammino, la dinamica della storia e della vita è rientrata in quel mondo di separati e richiusi, prigionieri volontari di un villaggio, delle regole, della loro infermità.

Tutti e dieci furono guariti, ma solo, questo straniero eretico, torna da Gesù, riconosce la ricchezza della relazione con lui. Uno straniero, il più estraneo alla fede di Israele, riconosce l’intervento di Dio nella sua storia. Non è interessato a mettersi a posto con la società o con la religione, ma sente il bisogno assoluto di lodare Dio a gran voce. Torna indietro, si getta ai piedi di Gesù. Ha bisogno di scorciare le distanze, di liberarsi dalla separazione che lo teneva legato al gruppo ma lontano dalla salvezza. Il gruppo in viaggio per Gerusalemme diventa di nove… sarà anche purificato, sottomesso alla legge, avrà raggiunto il tempio e i sacerdoti, si sarà messo in regola ma ha perso la caratteristica sinagogale, non è più chiesa. Lo straniero tornando indietro ha invece trovato la relazione con Gesù, la fede e la salvezza. Non è più straniero, ha capito che c’è una esigenza maggiore, stare col Signore. Ecco, oggi siamo messi a confronto diretto con nuove manifestazioni della stessa lebbra, con gli stranieri che si fanno vicini. È la storia in cerca di strade, o piuttosto la Provvidenza che ci sta cercando.