Il card Giuseppe Betori, ha scritto già 20 anni fa: “La Dei Verbum con le sue acquisizioni chiudeva secoli di emarginazione della Bibbia dal tessuto vivo della Chiesa, liberava l’interpretazione dalle strettoie cui era condannata dal predominio del dato dogmatico, riapriva il dialogo ecumenico, rispondeva agli interrogativi posti dalle scienze“. Dobbiamo ricordare tutto il timore che da Trento in poi ha accompagnato la Chiesa nel favorire una lettura diretta della Bibbia da parte del popolo di Dio. A dirla chiara, prima del Concilio, e fino almeno ai primi del ‘900 la Chiesa, nella sua struttura clericale, aveva un grande timore di un coinvolgimento dei laici nelle cose sacre. La paura che la libertà del laicato portasse all’eresia, anche se smentita dalla storia (le eresie la fanno i teologi non il popolo di Dio), aveva limitato sempre più la visione del laico come di un cristiano adulto. A questi “bambini” si poteva dare in mano il catechismo, ma non il vangelo! Dice infatti il punto IV del decreto che nel 1564 da il via all ‘indice dei libri proibiti: «In linea generale è proibita ai laici la lettura della Sacra Scrittura in traduzioni moderne. Risulta chiaramente dall’esperienza, infatti, che, se si consente a chiunque di leggere la Scrittura nelle lingue volgari, ne conseguono più danni che vantaggi, a causa della temerarietà degli esseri umani».
Oggi ci fa sorridere l’idea che “per curare la temerarietà degli esseri umani” fosse considerato un bene tenerli lontani dalla lettura della Parola di Dio. lo e molti altri con me, siamo profondamente convinti dell’esatto contrario, ma questa luce di fede si è accesa nei più solo da 50 anni a questa parte, non dobbiamo dunque stupirci che le pressioni per rinchiudere di nuovo la Bibbia entro il dominio assoluto dei tecnici siano ancora vive e tendano a tornare periodicamente a galla. L’obbedientissima Teresa di Lisieux disobbedì solo in una cosa alla regola del Carmelo: non potendo portare in Carmelo la Bibbia completa in francese che possedeva suo Zio e che lei aveva letto in più parti con avidità, si portò quaderni di appunti in cui aveva copiato i testi più belli dell’ A T. La straordinaria e rivoluzionaria dottrina sulla misericordia di Teresa nasce proprio da questa conoscenza “semi-clandestina” della Bibbia. Di fatto la Bibbia si incontrava solo nella liturgia, quindi in latino. E per chi era così fortunato da capire il latino, il lezionario pre-conciliare era così scarno che faceva conoscere solo un numero irrisorio di testi dell’ AT e non più del 13% di quelli del NT. Questo spirito del mondo post-moderno è più attratto dal magico che dal sacro, dove il discriminante è una visione del mistero come il buio lontano degli dei incomprensibili e non la rivelazione luminosa del Logos che si fa parola e gesto umani, che si fa carne. Verso questa Parola che ci viene incontro nelle parole degli uomini voleva che ci incamminassimo il Concilio, aprendoci ad una conoscenza ricca e sostanziosa della Bibbia. Il risultato triste è che ancora oggi più del 50% dei cristiani che vanno a messa ogni domenica non ha mai letto per intero i 4 vangeli. Né percepisce questo come un grave limite della sua vita di fede … evidentemente nessuno lo ha mai detto loro! Mentre magari sono stati più volte consigliati di leggere il libro del tale santo o del tale autore religioso, o il Compendio del catechismo della Chiesa Cattolica. Sarebbe come se ad un affamato consigliassimo tartine ed olive invece di pasta e carne. Il vangelo perciò si ascolta a messa e basta; a volte con meno attenzione della predica e questo è tutto dire. Questa mia insistenza serve a ricordare quanto la DV con la sua rivoluzione debba ancora nutrire la nostra vita di fede. Infatti la DV sia apre con una luminosa definizione pratica della Chiesa. Essa è la comunità che: “in religioso ascolto della Parola di Dio, la trasmette al mondo intero perché ascoltando creda, credendo speri e sperando ami” (DV 1). Questa centralità della parola per formare la Chiesa, comportava una prima chiara scelta di campo su una delle vie preziose con cui formare i fedeli e cioè la predicazione. Se nel corso dei secoli dal 1500 in poi la predicazione era diventata sempre più esortazione morale, tanto che nel linguaggio comune “fare la predica” vuol dire esortare moralmente ed in maniera noiosa e pedante, con la DV – si propone un chiaro cambiamento, che molti stanno ancora aspettando: «È necessario che tutta la predicazione ecclesiastica sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura» (DV21). “La liturgia infatti è il luogo in cui tramite la proclamazione delle Scritture Dio viene incontro ai suoi figli ed entra in comunicazione con loro” (Dei Verbum 21). Si afferma in quest’ultima espressione di un’importanza capitale, che la P AROLA è un vero e proprio sacramento, una via con cui realmente incontriamo Dio.
Partiamo di nuovo dall’inizio: “In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il sacro Concilio, ecc.“. Abbiamo già detto che queste espressioni iniziali della Dei Verbum esprimono l’essenza della Chiesa, nella sua duplice dimensione di ascolto e di proclamazione della Parola di Dio. In un certo senso, la Chiesa è tutta in questa duplice dimensione. Lo diceva con chiarezza il teologo Ratzinger commentando DV 1 in un suo testo degli anni ’60 “In DV I viene indicato davvero il primato della Parola di Dio la sua superiorità su tutte le parole e azioni del popolo di Dio. E’ come se tutta l’esistenza della Chiesa si trovasse raccolta in questo ascolto da cui soltanto può procedere il suo atto di parola“. La Chiesa può così parlare solo a partire da questo ascolto, altrimenti non ha nulla di veramente significativo da dire al mondo. In un’epoca in cui i confessionalismi, gli integrismi, i fondamentalismi, i fanatismi anche criminali si fanno così forti, mi sembra molto prezioso il recupero dello sguardo sulla pluralità e dialogicità della Bibbia. Cosa intendo? Da moltissimi punti di vista la Bibbia è un libro plurale. Il nome stesso (in greco Ta Biblia = i libri) indica un testo che raccoglie una pluralità di libri. Nella Bibbia vi è una pluralità di lingue, il che vuol dire una pluralità di mentalità e di culture: il greco, l’ebraico, l’aramaico. Ancora: c’è una pluralità di luoghi e di epoche di redazione. Un secondo messaggio che giunge dalla DV riguarda il modo di guardare al testo biblico. Senza nessun timore la DV ripete più volte che dobbiamo percepire sempre di più la Bibbia come un libro plurale e dialogico. C’è anche il fatto che le Scritture cristiane sono radicate nelle Scritture ebraiche, in quello che chiamiamo l’Antico Testamento o Primo Testamento. Per tutto ciò l’evento della Parola di Dio, il fatto che Dio ci parla attraverso un libro, si presenta come la voce di un coro, piuttosto che quella di un solista, come un dialogo piuttosto che un monologo. Se infatti seguiamo la DV essa si ci invita a guardare alla Bibbia non come ad un armadio da cui tirare fuori delle verità, come degli oggetti che possiamo portar via chiudendo l’armadio, ma come ad un luogo da cui giunge una voce e la voce di Dio è “come la voce di grandi acque”, come la polifonia del Padre, del Figlio e dello Spirito.
“Dio invisibile parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro, per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé” (DV 2).
Questo è chiarissimo nella liturgia, nel continuo andirivieni tra Antico e Nuovo Testamento, tra la prima lettura, la seconda lettura e il Vangelo, con il salmo responsoriale, che fa da ponte, da cardine, da passaggio tra Antico e Nuovo Testamento. In particolare mostrando che la nostra lettura della Bibbia non va solo dall’antico al nuovo. Infatti la promessa dell’Antico Testamento, compiutasi in Cristo, viene rilanciata come promessa in Cristo. Questo ci libera anche da tutte le tentazioni di letture fondamentaliste sempre risorgenti. Già il fatto che i Vangeli siano non uno, ma quattro, o “il Vangelo quadri forme” come dice DV 18 mostra il valore della pluralità: non c’è un unico modo di vivere la fede, ce ne sono diversi; non c’è un unico volto di Cristo, ma “i mille volti di Cristo“. I quattro Vangeli sono quattro inculturazioni differenti dell’unico Cristo. DV 19 “gli evangelisti scrissero i vangeli … tenendo presente la situazione delle chiese“. Così Marco guarda a Roma. In Luca troviamo un vangelo ellenistico-greco, probabilmente scritto nella zona della Beozia. In Matteo un vangelo siriaco (probabilmente siamo ad Antiochia di Siria, secondo l’ipotesi più accreditata) ed è un vangelo molto giudaico. In Giovanni, quarto Vangelo, siamo nell’ambiente efesino, nell’Asia Minore (Efeso e dintorni). La pluralità di letture e interpretazioni, che impedisce i ragionamenti monolitici, ci dice che la fede si può vivere effettivamente in maniere diversificate. All’interno poi di questa percezione della Scrittura come libro plurale e dialogico, il Concilio non ci lascia senza guida perché ribadisce la centralità dei Vangeli. E’ quanto afferma la Dei Verbum al numero 25, al penultimo paragrafo, in cui si dice: “Compete ai sacri presuli depositari della dottrina apostolica istruire opportunamente i fedeli loro affidati circa il retto uso dei libri divini, soprattutto del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli (in primis evangeliorum) con traduzioni dei testi sacri che siano corredati delle spiegazioni necessarie, veramente sufficienti affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e utilità con le Sacre Scritture e siano permeati dal loro spirito.” Le Scritture vanno anche studiate. lo non mi addentro nei problemi inerenti l’esegesi, ecc., però dobbiamo ricordare, per evitare le letture spiritualistiche troppo disinvolte del testo biblico, che c’è una distanza culturale tre il testo e noi, che non può essere superata se non attraverso uno sforzo. Sembra che con il passare del tempo questa difficoltà si faccia sempre più forte.
“L’uomo moderno“, si dice, fa fatica a recepire, ad ascoltare la Bibbia. Lascio la parola a questo proposito ad un grandissimo esegeta, Alonso Schökel, il quale in un commento alla Dei Verbum afferma: “Vi è una radicale somiglianza di tutti gli uomini, orientali, occidentali, antichi o moderni. Se ognuno di noi scende alla profondità del sostantivo, troverà semplicemente “l’uomo”, il quale poi nella sua realizzazione storica individuale si diversifica con tanti aggettivi a diversi piani di essenzialità o accidentalità. Buona parte del linguaggio dell’Antico Testamento è vicino a questa semplicità e radicalità umana, e parla un linguaggio umano, semplicemente umano, radicalmente umano”. Non lasciamoci abbagliare dall’espressione “uomo moderno”, che rischia di essere un mito. Parliamo di uomo! C’è un’umanità della Bibbia che va riscoperta, un linguaggio della Scrittura che è anzitutto umano. Che ci siano difficoltà è innegabile. Così come non è facile avere una relazione profonda con una persona, allo stesso modo avviene con la Scrittura. Ma l’amore può fare miracoli in questo campo e se ci lasceremo conquistare dall’amore per la Parola il nostro studio sarà più appassionato ed efficace, la nostra lettura più attenta e sapiente, la nostra comprensione più disponibile ed accogliente. Alla formulazione “Parola di Dio contenuta nella Bibbia” nel Vaticano II si è arrivati con molta fatica. Nella Dei Verbum al numero 24 si dice: “Le sacre scritture contengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio.” Questa è la formulazione del testo finale della Dei Verbum. Ma la formulazione iniziale, quella nel textus prior, era: “Le sacre scritture, non solo contengono la Parola di Dio, ma sono veramente Parola di Dio”. L’esatto contrario: “non solo contengono, ma sono veramente”. Capite che un’affermazione del genere darebbe adito al fondamentalismo e alletteralismo: se la Scrittura è Parola di Dio, allora dovrei prendere alla lettera ogni frase, ogni versetto. Allora avrebbero ragione i Testimoni di Geova: se sta scritto nella Bibbia che non bisogna mescolare certe cose, io non mescolo neanche il sangue, e lascio che una persona, che avrebbe bisogno di una trasfusione, muoia per obbedienza alla Scrittura. No! L’effetto della Scrittura è la vita, non la morte! C’è un criterio di autenticità della ricezione, dell’interpretazione delle Scritture, che si pone sul piano del “dare vita”, del “creare giustizia”, del “creare pace”, non morte, ingiustizia, oppressione. Così hanno liberato la Scrittura dalla coincidenza con la Parola di Dio. La Parola di Dio è una realtà che non può essere racchiusa in una frase, per quanto autorevole, della Bibbia. È la Scrittura stessa che mostra che non vi è coincidenza tra le due realtà e che la Parola di Dio eccede la Scrittura e non ne è esaurita. la Parola di Dio è una realtà eterna, onnipotente, è realtà che è in Dio. Va molto oltre il libro, che è una concrezione della Parola di Dio. Il libro la contiene, ma la consegna in un’interpretazione nello Spirito: quia inspiratae, poiché ispirate, sono veramente Parola di Dio. La Parola di Dio è contenuta nelle Scritture e in esse deve essere rinvenuta attraverso un’operazione di interpretazione nello Spirito. La conseguenza quindi è che occorre farsi carico della fatica dell’interpretazione. E interpretazione non significa solo prendere cinquanta commentari per cercarvi il significato di una frase, ma vuol dire far calare la Parola di Dio nella vita di una comunità, in un oggi storico sotto la guida dello Spirito. Qui si fonda tutto il valore della riscoperta della Lectio Divina che proprio a questa lettura tende, dove la lettura è solo la prima tappa di un cammino intellettuale (meditatio) orante (oratio) ed ecclesiale (collatio) in vista dell’evento gratuito del dono della Parola (contemplatio).